19 Jan Il corpo anarchico
Tra le immagini della contestazione che più colpivano noi, ragazzini cresciuti negli anni ’80, vi erano quelle dei raduni di massa, come quello di Woodstock, che trovavamo buffe e un po’ imbarazzanti per la vista di tanti corpi ammucchiati e spogliati, ma non nel senso solo di “svestiti”, piuttosto nel senso di ridotti allo stato di natura. Corpi profondamente individuali, secchi, molli, lunghi o corti, ma comunque abbandonati e vissuti in una dimensione collettiva – quando già nella “Milano da bere” l’arrampicata sociale passava anche per l’esibizione individuale o (o di classe) di forma fisica e abbronzature sempiterne.
Oggi, lontano anni luce da quell’epoca, siamo al mercato degli schiavi dei “soscial”, dove il corpo si esibisce in tante foto “segnaletiche” solo previa rigorosa condotta salutista e parecchie ore in palestra (quando non dal chirurgo estetico) e sempre in solitudine.
La Chiesa cattolica, che non ha mai lesinato sul disprezzo della dimensione corporea – basti questo passo dal “De miseria condicionis humanae” di Innocenzo III a darne una idea molto precisa “Herbas et arbores investiga: ille de se producunt flores, frondes, et fructus, et tu de te lendes et pediculos et lumbricos. Ille de se fundunt oleum, vinum, et balsamum, tu de te sputum, urinam, et stercus. Ille de se spirant suavitatem odoris, et tu de te reddis abominacionem fetoris.”. – salvava comunque il corpo fisico facendo dire ai fedeli nel simbolo apostolico: “Credo la risurrezione della carne”. Tale corpo salvato era però il corpo trasfigurato, modificato dalla grazia, in grado di volare al cielo perché epurato dalla sua pesantezze terrene.
Credo che la attuale religione del neoliberismo globale, intuendo la carica anarchica del corpo, ci voglia consegnare un dettato simile, una svalutazione del corpo – privata però della prospettiva escatologica del cristianesimo – e la messa al bando della dimensione corporea delle relazioni, al fine di neutralizzare gli ostacoli al nuovo ordine che il neoliberalismo vuole imporre.
In quest’ottica mi pare che l’attuale pandemia stia fornendo l’occasione perfetta per disinnescare del tutto tale carica, e di questo si vedono molteplici segnali, senza bisogno di essere complottisti, leggendo i discorsi e i programmi per i prossimi anni delle massime istituzioni europee e mondiali.
Le menti sono già prese da un pezzo: la TV ha fatto il lavoro sporco e ora la rete e l’AI perfezioneranno l’operazione, regalandoci una memoria esterna o integrata di enorme capacità, possibilità di calcolo inaudite e una coscienza collettiva regolata da algoritmi che conosciamo relativamente poco e che controlliamo ancora meno.
Non ci resta che il corpo, e quello dovremmo difendere.
Attenzione però, non mi riferisco al corpo come quel dispositivo identitario, esibito per affermare distinzioni e gerarchie tra presunte razze (white supremacy) o tra classi (Papeete, Billionaire) rivendicato ancora di recente dal fascistame globalizzato quando si raduna e blatera di dittatura sanitaria. Tutt’altro!
Io mi riferisco a un patrimonio che è sì individuale, ma comune a tutta l’umanità, anzi, a tutta la vita animale, e come tale da rivendicare collettivamente per valorizzare la forza anarchica della sua inerzia, delle sue incontrollabili pulsioni, delle sue debolezze, ribaltando quanto scrisse all’inizio del XIII secolo Lotario de’ conti di Segni.
Evviva il corpo, grasso, magro, muscoloso o flaccido, sano o malato, la debole infanzia, la spensierata giovinezza, e la turpe vecchiaia. Evviva il sesso, la crapula e i rutti, il vino, il fumo, le scorregge e la puzza sulla metro affollata!