16 Mar Non si muore, ma son dolori!
Verso la fine degli anni trenta accadeva spesso che piccoli centri montani, dove da sempre vivevano solo poche centinaia di anime, per qualche tempo diventassero vivaci punti di incontro movimentati da squadre di ingegneri, tecnici e maestranze inviate in quei posti dimenticati da Dio per realizzare bacini artificiali, dighe e centrali elettriche. Lo spirito rurale e strapaesano del fascismo degli inizi che per un po’ aveva frenato lo sviluppo tecnologico del paese, venne meno dopo la svolta autarchica, quando si rese necessario dotarsi di fonti proprie di energia: a questo scopo, in un paese come l’Italia ricco di montagne e di corsi d’acqua venne naturale scegliere la produzione idroelettrica.
E fu così che un bel po’ di persone arrivarono anche nel villaggio di Zeglio, un gruppetto di case in una sperduta valle tra i monti sopra il lago di Como alla confluenza di due torrenti, per incominciare i lavori di costruzione di una centrale, con la diga per il bacino idrico. Non si era mai vista tanta gente da queste parti, venivano da tutta Italia, anche dal sud e si ritrovavano qui tutti mescolati insieme. C’era persino una contessa venuta dalla città, la si poteva vedere in alcune ore del giorno passare tra le case, elegantissima, col cappellino, la veletta e, nelle giornate estive più calde, persino con un grazioso ombrellino a riparare l’atavica albagìa dai venefici raggi del sole contadino e proletario.
Tanto per aggiungere un po’ di confusione a tutto quel movimento intervenne anche una recente innovazione nei trasporti, l’introduzione di un autobus di linea che risaliva le stradine e portava la gente su e giù tra il lago e i monti. Tale era la novità che occorse anche un grave incidente a un uomo del paese che una sera scendeva in bicicletta verso l’abitato più a valle. Il ciclista, sentendo il rumore del motore e vedendosi venire incontro nel buio due grossi fari tondi ai lati della strada, credette di vedere arrivare due moto e pensando: “Ghe passi in mèzz!” (ci passo nel mezzo) continuò a pedalare, andando a schiantarsi dritto contro l’autobus che arrancava sulla salita.
In tutto quell’andirivieni di gente, tutti quegli operai che in qualche caso si erano portati appresso le famiglie, la povera Ines, la postina che gestiva anche l’osteria del paese, aveva un bel daffare, tra le lettere da consegnare e l’impegno di servire da bere e da mangiare agli uomini, all’osteria.
Moltissimi erano i tecnici e gli elettricisti reclutati tra i migliori un po’ da tutta Italia, ma il più esperto e apprezzato era senz’altro l’Ernesto, un bergamasco, tipo piuttosto schivo e taciturno che lavorava con grande serietà e concentrazione, ma che passava ogni sabato e domenica dalla Ines a bere. Beveva lentamente e sistematicamente, fino a sfinirsi. La domenica nel tardo pomeriggio poi lo si poteva vedere disteso in qualche angolo del paese, malridotto a causa della sbornia. A chi gli chiedeva: “Ehilà Ernesto, come va?” Era solito rispondere: “Non si muore, ma son dolori!”. Ogni lunedì poi l’Ernesto si presentava comunque sempre al lavoro, puntuale, sobrio e ripulito come se nulla fosse successo, lui che tra l’altro era l’unico tecnico autorizzato ad accedere alla cabina elettrica centrale e a risolvere i problemi di tutto il cantiere. Ogni benedetta fine di settimana però la passava così, a sbronzarsi, non si sa se per dimenticare una delusione amorosa, o se per maledire il destino che lo aveva portato fin lassù, in quel posto dimenticato da Dio e per giunta pieno di gente della bassitalia, di terroni insomma.
La sua frase “Non si muore, ma son dolori!” era divenuta proverbiale tra tutti gli operai, i tecnici e gli assistenti contrari.
Una domenica di inizio estate, una giornata molto calda seguita a un sabato di temporali, tuoni e fulmini, i tecnici si accorsero che qualcosa non funzionava nella cabina elettrica. Da quella cabina che controllava l’elettricità del grande cantiere e di tutto l’abitato usciva come un sibilo, un rumore sinistro che non lasciava presagire nulla di buono. Ci doveva essere un guasto, forse causato dai temporali del giorno precedente. Dopo un po’ qualcuno sentì provenire da lì dentro anche uno strano odore, come un puzzo di bruciato. Si doveva fare qualcosa, subito, ma tutti i capi e gli ingegneri erano scesi in città già dal giorno prima e ci sarebbe voluto troppo tempo a far arrivare qualcuno fin lassù. Insomma non si poteva correre il rischio che partisse un incendio dalla cabina centrale, e allora, a un certo punto incominciò a circolare un nome: ma certo, l’Ernesto! Era lui l’unico tecnico in grado di fare qualcosa per scongiurare il pericolo di un incendio o peggio, di un’esplosione!
Ma l’Ernesto oggi chissà com’è sbronzo, figuriamoci! – dissero alcuni. Tuttavia non c’era altra scelta e così lo si mandò a chiamare.
Naturalmente lo trovarono disteso su una panchina, semisvenuto. Lo svegliarono scuotendolo energicamente: “Ernesto dài, alla cabina, c’è un guasto, del fumo, forse un incendio!”, ma quello non si muoveva, riusciva solo a emettere qualche fioco lamento e a sibilare il solito ritornello: “Non si muore, ma son dolori…”. In due dovettero prenderlo, sollevarlo di peso e trascinarlo davanti al luogo incriminato. A quel punto, in mezzo a tanta confusione, l’Ernesto ebbe un sussulto. Con un certo sforzo si raddrizzò, si guardò intorno e disse: “Via tütt!”. Avanzò barcollando e sparì nel buio dietro la porta della cabina.
Fuori restarono tutti per oltre dieci lunghissimi minuti col fiato sospeso. In quella maledetta cabina passava corrente ad alta tensione, da lì dipendeva tutto il cantiere della diga in costruzione: in caso di errore del povero Ernesto non sarebbe rimasto che un mucchietto di cenere, e chissà che cosa sarebbe potuto accadere a tutto il paese!
Dopo una quindicina di minuti di ansia palpabile però il rumore cessò e poco dopo si vide l’Ernesto ricomparire dal buio, sulla porta. Uscendo disse: “fatto, tütt a post!” e poi crollò a terra, svenuto.
Con uno sforzo supremo, nonostante la sbornia, l’uomo aveva ripreso il controllo e, non si sa come, era riuscito a riparare il guasto e a risolvere il problema. Fu portato a casa sua e messo a letto.
E nel letto ci rimase per una settimana intera, sfinito.
Pare che l’unica cosa che riuscisse a dire, con un filo di voce, a chi andava a trovarlo fosse: “Non si muore, ma son dolori!”.